Le donne sono sempre state la parte debole. Nei lager, considerate meno resistenti, erano le prime ad essere mandate a morire insieme ai bambini; nell’ antichità l’omosessualità maschile era più accettata di quella femminile. Quante artiste conoscete o avete studiato? Troppo poche. In qualunque gruppo, oggetto di discriminazione o meno a cui appartengano, le donne sono meno ricordate degli uomini. Non importa cosa tu dica o faccia, se non appartieni al genere maschile dovrai sempre confrontarti con un mondo costruito su secoli di ideologie patriarcali.
I tempi moderni hanno di certo abbattuto molti pregiudizi grazie alle battaglie per la parità dei diritti iniziate nel secolo scorso, ma non si può ancora cantar vittoria. Una convinzione, forte negli uomini come nelle donne, ancora ci attanaglia. Se si vuol essere considerato un vincente, un duro perfettamente integrato e accettato, meglio non provare o non avere quei comportamenti e quei gusti considerati “femminili” dalla nostra società maschilista. In parole povere bisogna eliminare tutto ciò che possa dimostrare debolezza, quel che secondo Giulio Cesare portava ad effeminandos animos (a indebolire gli animi).
Vi è mai capitato di incontrare un “senza macchia e senza paura”, il vincente delle favole per bambini o delle poesie medievali, il superuomo dannunziano? Ovvio che no, perché non esiste, né è ma esistito. L’uomo, da sempre vittima di questo modello, ha cercato in tutti i modi di raggiungerlo nel corso della storia. Le donne, escluse da questo processo per i ruoli a cui società e persino letteratura le avevano relegate, hanno invece imparato qualcosa che il “sesso forte” si è voluto precludere a tutti i costi: piangere.
Il pianto è da secoli assimilato alla donna. Nella mitologia o nel folklore, eccetto pochi esempi come quello di Achille, sono le creature femminili a struggersi dal dolore e sfogarsi piangendo. La Llorona latino-americana è uno spettro che vaga gemendo alla ricerca del figlio smarrito. Le urla di dolore delle banshee celtiche annunciavano la morte di qualcuno. Lamia, amante di Zeus, vede morire i suoi figli per mano di Era, e per il dolore inizia a mangiare bambini. Da lei nascono le figure medievali delle lamie, poi divenute streghe, che si disperano divorando innocenti.
La donna dà sfogo alla sua sofferenza con gemiti e lacrime. Tutto ciò dimostra che è debole, perché non sa affrontare la violenza della vita. Questo è un paradigma che ci accompagna ancora oggi, lo ritroviamo persino nelle cose più semplici. Un uomo, ad esempio, non può commuoversi davanti a una storia d’amore, perché se lo facesse risulterebbe una “donnetta”, può essere innamorato di sangue e violenza ma se non lo fosse sarebbe un debole. Se però una donna non apprezzasse la brutalità, sarebbe la prima a percepire l’obbligo di fustigarsi. Stereotipi? No, o meglio non solo.
Alla base vi è una profonda e radicata paura di soffrire, spaventarsi, provare dolore, piangere. Accettare quel lato “debole” di sé che una società patriarcale, stabilite le regole da seguire per essere un vincente, ha voluto a tutti i costi additare come prerogativa della sola donna. Ciò ha condotto l’uomo a sopprimere sé stesso e schiacciare chi, nel corso della storia, gli metteva davanti agli occhi questa scomoda verità: persone cui invece riusciva più semplice scendere a patti con la sofferenza, donne o anche uomini con caratteristiche “femminili”. Se volessimo attribuire un difetto alla modernità, sarebbe proprio che questa paura ha afferrato anche la donna, la quale ha iniziato a pensare che essere uguale all’uomo significasse soffocare quanto di più umano c’è al mondo: la fragilità.
C’è una frase di San Paolo, feminae taciant in ecclesia (le donne non parlino in assemblea), che riassume in sé tutto il pregiudizio riversato sul genere femminile. Debole, stupido, incapace di comprendere la vita e perciò inadatto a organizzarla. A questo punto però voglio porvi una domanda: chi è davvero in grado di affrontare il mondo, quelli che ne subiscono il dolore imparando così a sopportarlo, o quelli che fanno finta di non esserne toccati al punto da sviluppare un terrore patologico? Modernità significa libertà, giusto? Allora, che ci si liberi di queste catene mentali, che uomini e donne si ricordino che sanno piangere. Nessuno imponga alla femminilità di tacere.