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Shāh Māt

Pubblicato il 23 Nov 2017

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Questo il racconto che ha vinto il primo premio nel concorso “Scacchi” collegato al III open di scacchi di Terni. Buona lettura e complimenti all’autrice Sabrina Longari.

Vittoria prese un bel respiro e cominciò a contare tra sé e sé fin quando il cuore non rallentò i battiti: da giorni si sentiva come se il corpo non le rispondesse più, come se qualcun altro se ne fosse impossessato rendendola instabile e al limite del cedimento. Aveva l’occasione di riprendere in mano la sua vita e dimostrare che quell’essere fragile, costretto da anni su una sedia a rotelle, non era inferiore a nessuno. A dodici anni un’auto impazzita le finì addosso, impedendole per sempre l’uso delle gambe e lasciandola sorda. Niente più salti nelle pozzanghere, niente più rumori che potessero svegliarla nel cuore della notte strappandole urla di spavento.

Si era avvicinata al gioco degli scacchi spinta dal dottor Iginio: un giorno l’uomo si presentò in studio con quella che, a prima vista, aveva scambiato per l’opera realizzata da un artista da strapazzo. Le spiegò – scrivendo su un foglio di carta con bella grafia – che si trattava di una scacchiera e che avrebbe provveduto ad insegnarle tutte le regole di quell’antico gioco di strategia. Per oltre quindici anni, finito il periodo di riabilitazione, l’appuntamento settimanale con il vecchio medico fu l’unica cosa che la tenne lontana dalla tentazione del suicidio. “Per pensare non hai bisogno delle gambe e neppure dell’udito”: questo le aveva scritto il dottore su uno dei suoi soliti foglietti volanti. Quanti erano? Non aveva mai perso tempo a contarli.

All’inizio, termini come “pezzi”, “case bianche”, “case nere” o “arrocco” erano parole vuote messe insieme in frasi di cui non capiva il senso; tuttavia, lentamente, erano diventate una sfida, ma anche la tana in cui ripararsi per fuggire al lupo rabbioso delle sue paure. Una nuova ragione di vita. Mai avrebbe immaginato che, mossa dopo mossa, si sarebbe conquistata quella serenità interiore capace di contrastare i violenti temporali dell’anima.

Ricordava benissimo il risveglio dopo il coma; il viso dei suoi genitori, sconvolti dal terrore e dalla

preoccupazione. Li guardava muoversi nella stanza dell’ospedale, aprire le labbra con trepidazione come se lei avesse potuto comprendere quel fiume di parole vomitate nel buco nero in cui era caduta e da queste trarre qualche conforto. Non capiva. Non riusciva a capire: cercava di scendere dal letto ma, per quanto facesse, restava imprigionata nel groviglio delle lenzuola, attorcigliate alle braccia e strette peggio della catena al collo di un cane che tenta di fuggire dal padrone, senza riuscire a scappare, neppure mordendo e abbaiando furiosamente. Dov’era la catena? Cosa le impediva di alzarsi dal letto? Nella sua testa mancava un tassello. E perché i suoi genitori si comportavano al pari di marionette mosse da fili invisibili? Il buio.

Ancora. Solo qualche tempo dopo le dissero che, per calmarla, avevano dovuto darle un sedativo; le

spiegarono, utilizzando una lavagnetta di ardesia, che la sordità era permanente e che, probabilmente, non avrebbe più camminato. Il mondo che conosceva si era infranto contro il parabrezza di un’utilitaria guidata da un maledetto ubriaco, morto sul colpo. Mossa dopo mossa, aveva imparato a farsene una ragione. Il cane era tornato docile, anche se il padrone non era più lo stesso: non aveva più visto un sorriso sul volto dei suoi genitori.

Mancava ancora mezz’ora all’inizio della partita. Si guardò intorno. Molti giocatori sembravano sul punto di gettarsi nella mischia, altri parevano essere in un altro luogo, anche se fisicamente presenti. Uno su tutti catturò la sua attenzione: aveva un viso famigliare. Corse rapidamente con lo sguardo al cartellone su cui erano segnati i nomi dei partecipanti al torneo: Cortese, Del Corso, Fortebracci, Giudici, Ingegneri, Liverani, Lorenzi, Matese. Matese: lo stesso cognome del dottor Iginio. Yashar Matese. Il figlio. “Un giorno ti farò conoscere Yashar”, le scrisse qualche mese prima che un attacco di cuore la separasse per sempre dal maestro di vita e di gioco. Non riuscì a trattenere una lacrima. Quel giorno era giunto, anche se – probabilmente – non avrebbe trovato il coraggio di presentarsi all’uomo seduto in disparte con lo sguardo

fisso alla punta delle scarpe. Un tocco alla base del collo la distolse dal groviglio dei pensieri: uno degli addetti all’organizzazione le indicò il tavolo da gioco. Spinse la carrozzina fino al bordo del tavolo, la scacchiera posizionata al centro del piano: il legno scuro del mobile faceva risaltare i pezzi di madreperla e, a scandire il tempo di riflessione, l’orologio a due quadranti posto lì a fianco. Il cuore riprese a battere veloce, lei a contare: uno, due, tre. Sul tabellone tardava a comparire il nome del suo avversario. Poteva andarsene, girare sulle ruote e uscire dalla sala. “Puoi decidere di vivere o morire, in ogni caso ci vuole coraggio”: vedeva di fronte agli occhi uno dei tanti foglietti scritti dal dottor Iginio. Da tempo aveva deciso di vivere. La tiritera del coraggio, però, era un’altra storia. Poteva considerarsi coraggiosa? Lei, che aveva trascorso intere settimane chiusa in una stanza, uscendo soltanto perché obbligata ad incontrare il vecchio medico amico del padre; lei, che aveva scelto di seguire le regole di un gioco sconosciuto soltanto per evitare di pensare all’immobilità e al silenzio; lei, che per vincere una sola partita col vecchio testardo aveva perso migliaia di volte? Alzò gli occhi al tabellone elettronico: Vittoria Valente Vs Andrea Restio. Un uomo alto, sulla cinquantina, prese posto di fronte a lei. Neppure il tempo di scambiare un’occhiata col suo avversario e vide un foglietto piegato in quattro spuntarle da sopra la spalla, cadendole in grembo. Mentre si affrettava ad aprirlo, cercò tra la folla di giocatori intenti a prendere posizione chi potesse averle allungato quel biglietto. Yashar, tenendo in mano un taccuino rigido, le voltò le spalle e si sedette dandole la schiena. Lesse: “Mio padre sarebbe stato fiero di te. Scaccomatto”.

Sabrina Longari