Ospiti

Gola e altri peccati

Pubblicato il 9 Lug 2021

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Fare a pezzi il corpo fu più difficile di quanto mi fossi aspettato, ma ero determinato a cucinarlo per la cena tra amici e a fare in modo che i presenti si mangiassero le prove dell’omicidio, insieme a un bel contorno di patate e formaggio.
Speravo di avere sufficiente tempo di preparare tutto e di fare una doccia e vestirmi adeguatamente prima dell’arrivo degli ospiti, ma le operazioni di sezionamento avevano richiesto più tempo del previsto. Non aveva l’apparenza di essere così tosto, ho realizzato come il modo di vestire influisca enormemente sulla percezione che si ha di un corpo: in polo a maniche corte e pantaloncino di lino le gambe e le braccia avevano l’aspetto di ramoscelli rinsecchiti ma alla prova della mannaia mi sono quasi lussato la spalla per staccare le cartilagini e demolire le giunture. Tosto, tostissimo! Non solo le ossa (sulla cui sostanza e consistenza ovviamente non posso mai effettuare alcun tipo di valutazione preventiva, per magri che siano i miei tesorini), ma la muscolatura era davvero solida, delle guaine ferrose e nervose che hanno continuato a opporre resistenza ben oltre il momento in cui il più importante tra tutti i muscoli aveva smesso di pompare sangue! Una fatica immane, vi dico, e inaspettata. Se lo avessi visto, che so, in un completo blu navy, magari mi sarebbe parso un uomo non vecchio e in forma invece che uno skipper denutrito. La prossima volta proverò a fare questa prova, di immaginare il tesorino in tutti i possibili outfit per saggiarne meglio il fisico. Si, farò così. Esperienza è il nome che diamo ai nostri errori!
Dovevo anche – fattore non secondario – dare una pulita a quello spettacolo immondo che si era creato nelle grandi manovre: ossa sbriciolate sul bancone con ancora brani di carne tenacemente attaccati, braccia senza mani che terminano in grumi filamentosi, piedi sporchi, lingua non ancora ridotta in sashimi… gli occhi almeno erano già stati puliti dai bulbi, quelli li ho scollati dal bianco e tenuti pronti per la marinatura. Li avrei poi adagiati sopra al pane caldo con una limetta di burro, creazione mia. Quale soddisfazione più grande che stare di fronte ai tuoi affetti in estasi che chiudono gli occhi assaporando ogni boccone con i denti e con la lingua e con gli occhi e con il naso, e dire tra sé e sé “l’ho fatto io”? Già, la cucina è la grande arte della convivialità e del rispetto reciproco, ma prima di arrivare ad autocompiacermi dovevo proprio dare una pulita a tutto quel sangue e quelle interiora che mi invadevano i tavoli e gli elettrodomestici. Il servizio termina con la pulizia della cucina, ricordatelo sempre! E a maggior ragione, era ora di mettersi a lavoro di buona lena se volevo rispettare le tempistiche. “Forza a lavoro, mettiamocela tutta!”, dissi ad alta voce, come se intorno a me ci fosse una squadra di aiuto cuochi invisibili.

Ma questo è l’errore che commettiamo più spesso tutti quanti, quello di non saper tenere il becco chiuso e quindi far sapere all’universo dei nostri piani. Un inatteso trillo del campanello mi gelò il sangue.
Era mai possibile? Il tesorino era sparito da poco più di tre ore, al campo da golf avranno creduto che fosse rientrato a lavoro, in ospedale dovevano pensare che fosse ancora al campo da golf, a casa non sarebbe dovuto rientrare prima di cena. Chi poteva essersi accorto della sua sparizione!? Ero stato visto mentre lo accoppavo? Mi avevano seguito?
Un secondo trillo, sentii le tempie calde e il sangue ribollire d’adrenalina. In preda ad una frenesia isterica presi a nascondere, pulire, cancellare lo spettacolo macabro che offriva la mia cucina. Non avrebbe passato l’esame di nessun investigatore, né tantomeno di un ispettore dell’ufficio igiene, ma almeno non era tutto in bella mostra come prima.
Terzo trillo.
Gettai il grembiule madido di fluidi vitali nel cestino e mi avviai alla porta senza smettere di controllare che non ci fosse sangue tra le mie dita, sulle scarpe, sui pantaloni. Ormai il dado era tratto, se erano alla ricerca di quel tesorino avrebbero anche potuto sfondare la porta e allora non avrei avuto speranze, tanto valeva presentarmi al meglio possibile e cercare di risolvere tutto con un bel sorriso, e poi rimettermi ai fornelli. “Coraggio, insieme ce la possiamo fare!”, sempre rivolto a me e al mio staff inesistente.
Volli gettare un occhio sullo spioncino, per capire quanto fossi fottuto in un livello da zero a primogenito maschio in tempi di piaghe d’Egitto, mi bastò un’occhiata per capire che nemmeno il padreterno mi avrebbe salvato da quella faraonica iattura. Ero spacciato. In attesa sulla veranda in tutta la sua spazientita indisponenza, ammantata di una improbabile ecopelliccia fluorescente quasi atomica, si ergeva mia madre.
Allora, cosa cazzo stai aspettando, apri o no amore a mamma?
Era la fine.

Allora ti sbrighi amore, dai che ho freddo cazzo, apri tesoro a mamma lo sento che sei lì!
Adoro mia madre. Davvero. La adoro la adoro la adoro. Ma non la gestisco. La sua invadenza, la sua totale noncuranza dei limiti e dei confini, la sua ossessione nel dimostrare che era, è e sarà meglio di me su tutti i banchi di prova in cui si testa un essere umano nel corso della vita. E soprattutto, in cucina. E se avesse visto adesso quei rimasugli di frattaglie e quegli arti freschi di abbattimento e puliti dai peli pronti per il forno, come avrei fatto a spiegarglielo? Sarebbe stata davvero, davvero, la fine. Ma in certi casi non c’è tempo di agire diversamente che mostrare il petto alla daga nefasta della sfortuna e cercare di assorbire il colpo con la maggiore dignità possibile, digrignando i denti se necessario. Aprii la porta,
Buonasera madre mia.
Non salutarmi come un cazzo di eunuco debosciato, un bacetto a mamma.
Succhiò la mia guancia con tanta forza che dovette ammostarmela. Qualsiasi cosa fosse successa, avrei dovuto tenerla lontano dalla cucina. E dovevo far durare il meno possibile quella visita inattesa e improvvida.
Cos’è quella faccia? Ti disturbo? Ti stavi facendo una sega?
No… No madre mia, mamma cara. Scusa se non ti prendo la giacca, per quanto io sia felice di questa tua sorpresa, sono nel mezzo di alcune gravi manovre in casa e non vorrei che ti sporcassi, sai. Ma mi ha fatto piacere, ti trovo in ottima forma, vedrai che presto riusciremo a fare quella cena…
Stai spugnettando qualcosa in cucina? Dai qua, da solo rischi di farti male, farai qualche cazzata di sicuro, fai dare uno sguardo a mamma dai.
No mamma, mamma no, NON LI MAMMA NON ENTRARE
Il destino è sempre in ascolto, e si fa beffe di noi.

La mamma se ne stava eppena oltre la porta, come una leopardessa dal manto color verde evidenziatore nel centro del mio ampio laboratorio culinario a scandagliare le vaste praterie dei miei peccati gastronomici. Il mio tesorino era lì, nascosto. E lì, e lì, e lì. A pezzi ovunque tra le mensole, i pensili e nei cassetti. Se ne era accorta? Non avrei saputo cosa dire, cosa fare se si fosse resa conto del peccato che si stava consumando tra quei ripiani. Rimaneva lì, in silenzio, sembrava quasi sperduta e intontita. Poi parlò,
C’è sempre come una puzza di merda in questa cucinicchia, ma almeno copre un po’ gli odori di quello che prepari.
Devo… cambiare l’aria, grazie mamma.
Si sciolse, non doveva essersi accorta di nulla.
Cucini qualcosa?
Ma no… no madre mia, no mammina cara, questa sera ordinerò una pizza. Stavo… riparando il lavello, sì, riparando il lavello. È anche questo l’odore che senti, riflusso Ma’, c’è riflusso. Infatti, non vorrei che ti sporcassi o che la tua bella pelliccia prendesse odore, quindi se vorrai tornare domani o dopodomani meglio ancora…
ECO-pelliccia, piccolo stronzo sanguinario. Mamma non li porta gli animaletti bastonati, sventrati e squoiati. Povere bestiole. Fai vedere il lavello a mamma, che te anche coi lavori di casa sei negato come a cucinare, infatti tratti i filetti come fossero tegole di amianto.
Inutili le mie resistenze, prese ad aggirarsi per la cucina. Orribile a dirsi, dal pensile dove tenevo la pastasciutta, appena socchiuso, sporgeva una mano destra. Il tesorino stava forse richiamando l’attenzione di mamma per sancire la mia rovina? Lei fortunatamente era ancora china fino al naso sullo scarico del rubinetto, e riuscii a chiudere lo sportello prima che rialzasse la testa, per la foga lo feci sbattere con un gran botto.
Cazzo fai tesoro di mamma, piccolo idiota mio, ti sta facendo le scoreggine il cervello?
No mamma, avevo paura che ci sbattessi la testa… Era rimasto aperto.
Che piccolo stronzo affettuoso che sei! Ma non sento niente provenire dalle fogne. O forse è quello che prepari tu che puzza più della merda dei ratti e quindi ormai qui dentro non ci si fa più caso.
Grazie mamma, sì è quello, forse è per quello! La mer… Quella cosa lì, la cosa dei ratti, sì già. Per quando tornerai sarà pulito.
Eppure non volle sentir ragioni, anzi più mi dimostravo ansioso, smanioso di cacciarla, nervoso, più lei sembrava trovarsi a suo agio, si accomodava anzi, molle come una muffa, sui miei sgabelli. Non si era nemmena spogliata, pareva davvero orgogliosa di quel capo di pessimo gusto. Ma forse per il caldo, forse per un improvviso attacco di fame, forse per ribadire che non aveva alcuna fretta di andarsene, allungò un braccio verso la ciotola dell’uva. In mezzo ai grassi e tondi chicchi, i due occhi del mio tesorino in pezzi mi fissavano con aria grave ribadendomi tutta la mia colpa. Quello sguardo avrebbe confessato a mia madre il tremendo crimine che si era consumato e che ancora si stava consumando quel giorno, forse direttamente urlandoglielo con lo sguardo dal palmo della sua mano, o tra le sue dita corte, grassocce e inanellate.
Una volta privati di tutti i loro supporti espressivi, come ciglia, sopracciglia, palpebre e persino rughe di espressione, gli occhi perdono tutti i caratteri della persona che li portava. Quelli non avevano più il carico virulento di sufficienza e disgusto che il tesorino mi scaricava addosso ogni volta che mi vedeva dietro al bancone del golf club, e che mi scaricò addosso anche quella mattina. Così nude tutte le paia d’occhi invece descrivevano la stessa sensazione di comico sbigottimento. Non sono gli occhi lo specchio dell’anima, anche nel loro caso tutta la percezione è modificata dalla foggia dei loro vestiti di pelle e amminoacidi. Ma stavo divagando troppo e pochi istanti mi separavano dal disastro.
Afferrai di getto una gran manata di grappolo e me la infilai così in bocca di scatto, prima che mia madre potesse raggiungerla.
Tesoro, ma ti sei rincoglionito del tutto allora a mamma? Cosa cazzo stai facendo piccolo rutto di cinghiale? Hai preso a sniffare la varechina, per caso?
Non riuscivo a respirare. Gettai un’occhiata alla ciotola, li avevo presi entrambi. Non potevo masticare, avrei rischiato di mangiare anche gli occhi, così crudi e sconditi. Per questo prima di ingoiare ogni chicco lo analizzavo attentamente con la lingua, cercando la cavità della pupilla. Niente cavità, giù nel gozzo. Quando trovai il primo occhio lo ficcai nella guancia, che da fuori si gonfiò come quello di uno scoiattolo. E via così alla ricerca del secondo. Sentivo che stavo diventando blu in viso, ero in gara contro la mia morte per asfissia.
Mia madre intanto mangiava la sua uva e mi fissava con un misto di curiosità e delusione.
Povero amore mio, sei tutto tuo padre. Un perfetto coglione. Anche lui ha cominciato a diventare coglione alla tua età, sai?
Sputò gli acini per terra.

Trovai il secondo occhio, ovviamente alla fine del carico che portavo in bocca. Continuai ad annuire silenziosamente ai commenti all’antrace della mia genitrice fino a trovare un momento giusto per sfilarmi quel prezioso carico dalla bocca e infilarmelo in tasca.
La mamma sembrò infine soddisfatta. Forse intenerita dal mio comportamento insolito, forse indispettita dal fatto di non avermi trovata con le mani in tasca per darmi una lezione di cucina, o semplicemente appagata dal fastidio che senz’altro aveva capito di avermi arrecato, sembrò sul punto di levare le tende. Grazie a Dio misericordioso!, pensai.
Si alzò in piedi e con distrazione passò un dito sul piano di lavoro. Poi se lo passò davanti agli occhi, vagamente unto e con una lieve patina color della ruggine.
Mangi la pizza a mamma, stasera, eh?
…S-Sì, madre mia. Pizza. La ordino. Non ho voglia di cucinare…
Non avevi da riparare il lavello?
SI, voglio dire, sì, il lavello, devo ripararlo, poi non ho voglia di mettermi a cucinare.
Mi carezzò la guancia con la mano a cui apparteneva il dito sporco,
Me lo diresti, cuore di mamma, rospetto mio, se ci fosse qualcosa che non va, vero?
Sì… Sì certo madre mia, figurati.
È tutto a posto?
S-sì.
Sicuro, tesorino?
Sì…
Sorrise, sembrava persuasa. Forse l’avevo scampata.
Strappò una salvietta dal rotolo, si asciugò la mano dal residuo di grasso (umano) che non era rimasto sulla mia faccia e schiacciò il pedale del cestino della spazzatura che si aprì con un secco CLANG. Era colmo di stracci insozzati di sangue rappreso ormai marrone e di alcune matasse di scalpo e capelli rimosse frettolosamente prima di andare ad aprire la porta di casa. Ma la mamma non staccò gli occhi da me. Rimasi immobile. Nessuno dei due interruppe lo sguardo per interminabili istanti. Sembrava una sfida a chi lo avrebbe distolto prima. Poi a colpo sicuro gettò la carta appallottolata nel secchio e si mise sui suoi passi verso l’uscita.

Prima di andarsene mi staccò un altro violento bacio, poi, tenendomi ancora la testa fra le mani e guardandomi fisso mi chiese,
Cuore della mamma, palombello mio, glielo dici alla mamma quando ammazzi il prossimo figlio di puttana, vero? È un sacco, un sacco di tempo che non ceniamo insieme.
Sì, madre. Mamma. Te lo prometto.
Sorrise socchiudendo gli occhi e se ne andò per il vialetto di casa sbattendo ritmicamente i lunghi tacchi sul selciato.

…ed ecco perché sono arrivato corto coi tempi, scusate per l’attesa. Almeno avete avuto tempo di soffermarvi sull’antipasto.
Fuori dalla casa c’era un tempo da cani, ma all’interno vigeva una calda, gioiosa atmosfera di convivialità. Il bel gruppo dei miei amici si scambiava battute e mangiava con gusto i crostini di lingua e apriva altro prosecco, i fidanzati si imboccavano l’un l’altro con divertita complicità.
Tranquillo man, non abbiamo alcuna fretta di uscire. Visto che tempesta fuori!
Mi disse così il buon Vlad, e addentò il suo crostino. Lo vidi sollevare gli occhi al cielo come per tentare di indovinare quali spezie facessero parte della marinatura, le labbra intanto si incurvavano in un sorriso che solo una buona pietanza è in grado di disegnare.
Ma allora la tua vecchia, pardon, la tua mamma, ti ha sgamato?
Che dire, che dire… forse sì. Forse no. Spero di no. Si arrabbia da morire quando accoppo un tesorino e non la invito, ma questa sera era per noi, era già deciso! Solo che, ecco, mi preoccupo. Quando si arrabbia da morire…
Già. Già, non serve che tu dica altro. La fama della signora Heather la precede. Ormai vedo però che la cicatrice ti si è rimarginata del tutto! Ottima notizia!
Sì, sì è roba vecchia, ormai, è andata… Ma non ripetiamo mai più l’esperienza! La prossima volta sarà una cenetta in famiglia, sono già sulle tracce di un altro tesorino che non lascia mai la mancia e oltretutto non risponde mai al telefono quando lo chiama suo padre. Rispetto per i genitori, questo ci vuole. Sempre.
Forte di questo motto mi piegai verso il forno e diedi uno sguardo al suo contenuto. Ricordate, il vero chef non lascia che sia il timer a dirgli quando è ora di far uscire l’arrosto!
Tirai fuori il vassoio, la testa del mio tesorino era stata preparata a puntino, la calotta cranica aperta era riempita di fonduta, le orbite (quelle prima abitate dagli occhi che avevo tenuto in bocca) erano coperte di frutti rossi, dalla bocca aperta si potevano cogliere patate arrosto, che ricoprivano il resto della teglia insieme a fettine di pane ben dorato.
Amico mio, questa sera ti sei superato!
Ed era vero. Nonostante tutto, sono qui, ben vestito e profumato, ad un’orario rispettabile, circondato dagli amici più cari che a stento trattengono la saliva di fronte a un piatto preparato da me. E non c’è niente di più prezioso nella vita di questi momenti insieme.