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Il supplizio di Tantalo-Ore Contate 2021

Pubblicato il 21 Giugno

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Fare a pezzi il corpo fu più difficile di quanto mi fossi aspettato, ma ero determinato a cucinarlo per la cena tra amici e a fare in modo che i presenti si mangiassero le prove dell’omicidio, insieme a un bel contorno di patate e formaggio. La parte più ostica fu rimuovere la peluria da ogni punto del corpo: era sempre un lavoro lungo e snervante. Ma ormai sapevo bene come fare. Le parti molli furono le più semplici: i glutei, le cosce, le maniglie dell’amore, i genitali, i tricipiti e la carne adiposa dei fianchi erano facili da cuocere, e sarei riuscito a renderli deliziosi. Era importante macinare e impastare ben bene il tutto. Nessuno si sarebbe dovuto accorgere di nulla, non prima di aver addentato il primo boccone almeno. Era quello che faceva la differenza.
Passai mezza giornata a lavorare al banchetto: alle sette e trenta della sera non restava più nulla che lasciasse intuire la presenza di carne umana nelle pentole. I convitati arrivarono puntualissimi mezz’ora dopo: undici persone che avevo irretito e di cui mi ero finto amico, in un lavoro costante che era durato anni. Avevo fatto in modo che si frequentassero e che tra loro si creassero dei legami. La dodicesima persona coinvolta nel mio piccolo gioco era quella che sarebbe stata servita accompagnata da salse deliziose. L’atmosfera festosa, il ciarlare delle donne, le risa gioviali degli uomini… la storia che si ripeteva, ancora, e ancora, e ancora. Da migliaia di anni.

Mi ero sempre distinto per essere un ospite terribile, dall’età più tenera. I miei convitati dell’epoca mi sopportavano soltanto per il buon nome di mio padre, di cui feci una corazza: ogni loro distrazione era buona per rubare qualcosa. Avevo rubato un cane d’oro, avevo bevuto l’ambrosia incurante del divieto impostomi su di essa, mi ero sposato senza essere sfiorato dall’amore e avevo generato diversi figli con più donne: volevo a tutti i costi essere un pari degli dèi che mi ospitavano, avere ciò che spettava loro di diritto. Ma ero solo un mortale con un padre ben voluto sull’Olimpo. Ogni tentativo di somigliare a un dio si rivelava un fallimento. Negavo la distanza che mi rendeva meno di un loro simile. Così decisi che era giunto il momento che loro somigliassero più a me.

«Il sole è solamente una palla infuocata. Cosa può avere di divino?»
«Come osi!?»
«Ma sì, fidati, non mi sbaglio», mi divertivo a provocare Apollo (che era più irascibile degli altri, persino di Ares), in attesa che i miei servitori portassero la carne a tavola.
Il salone dei ricevimenti della mia reggia era addobbato come se fossi appena tornato vincitore da una guerra. Il camino acceso scaldava l’atmosfera. Pregustavo il momento dell’arrivo delle pietanze. Mi ero occupato io stesso della lavorazione della carne. Avevo lasciato ai cuochi solo il compito di cuocere, secondo le mie indicazioni. In disparte, Demetra sospirava per la figlia appena perduta: non appena i servitori riempirono i piatti, la dea si fiondò sul pezzo di carne che le era toccato senza nemmeno guardarlo.
«Demetra no!», Era le diede uno schiaffo sulla mano che artigliava un pezzo di spalla e gliela fece cadere di nuovo nel piatto.
Calò il gelo.
«Dov’è tuo figlio Pelope?» tuonò Zeus.
Feci un gesto ampio con il braccio a indicare la tavola imbandita. Gli dèi si portarono le mani alla bocca. Indignati, non toccarono cibo. Maledissero me e la mia stirpe, mi tolsero i miei beni terreni e mi spedirono dal fratello reietto: giù nell’Ade, a pagare in eterno per aver cercato di corromperli con un’empietà inenarrabile.

«Aiuto! Pietà! Ho fame! Vi prego, vi prego, lasciatemi mangiare!»
Ridotto a poco più di un’ombra, circondato dalle aride sponde dell’Ade, dagli alberi da frutto ormai secchi e bruciati e dai fiumi imputriditi dai cadaveri di pesci scarnificati, imploravo. Imploravo i miei aguzzini di lasciarmi in pace. Da quanto durava quella tortura? Per quanto tempo ero stato relegato ai confini del mondo? A intervalli di tempo regolari una vergine veniva a portarmi un vassoio pieno di leccornie e io afferravo quanto potevo: ma tra le mie mani tutto si tramutava in cenere. L’acqua dell’oasi accanto a me improvvisamente si faceva limpida e fresca, ma non appena avvicinavo le labbra diventava fiele. La frustrazione di non poter mangiare mi faceva infuriare. E sempre, sulla mia testa, la pietra del giudizio. Fu allora che udii la risata cavernosa del re degli Inferi.
«Cosa vorresti da mangiare, dopo quello che tu hai servito agli dèi? La cenere non ti sazia?»
Mi gettai ai suoi piedi e iniziai ad addentargli un polpaccio. Il dio mi si scrollò di dosso come fossi una pulce.
«Che cosa vuoi!?» ringhiai contro di lui.
I suoi occhi di brace guizzarono nel buio.
«È passato molto tempo da quando ti abbiamo relegato quaggiù. La gente vive in un mondo nuovo. Le persone si sono dimenticate di noi. Nessuno venera più gli antichi dèi. E quando nessuno ci venera, noi sbiadiamo. Gli uomini vanno puniti per la loro empietà: e chi meglio di te, che sei il più empio di tutti?»
Sotto i suoi occhi di brace si accese un ghigno ferino.
«Mi stai offrendo… la libertà?»
Il dio rise di gusto.
«Ti sto offrendo un lavoro».

«Thalius, ma ti sei superato! Ma quanta roba hai cucinato? Non siamo mica un esercito!»
«Parla per te Maggie, noi possiamo mangiare anche per quattro!»
Nel salone gli invitati risero gioviali. Feci un sorriso riverente e finsi premura nei confronti di quelli che credevano d’essere miei cari amici. Non avevano nulla a che vedere con gli individui che mi avevano condannato a quel destino, eppure provavo nei loro confronti la stessa collera di allora. Invidiai la loro ignoranza, la loro superficialità. Gli umani avevano dimenticato, e ora si sentivano i padroni del mondo. Anche loro, come i miei nemici di un tempo, erano avvolti da una specie di aura sacrale, come se nulla potesse scalfirli. L’immortalità… mentre spartivo le parti sorrisi: quell’idillio non sarebbe durato a lungo. Prima di sedermi, offrii un brindisi.

Trovai il mondo molto cambiato quando vi rimisi piede. Ade preferì mettermi al corrente che mangiare carne umana in molte culture oltre le colonne d’Ercole e nella profonda Africa era considerato normale, anzi, spesso faceva parte di rituali religiosi. Non era quella gente che avrei dovuto punire. Dovevo occuparmi degli uomini che avevano dimenticato di essere briciole, di quelli che si erano fatti dèi in Terra. Il mio primo vero incarico lo svolsi nel 1816, diversi decenni dopo il mio ritorno tra i vivi: l’occasione fu quella di un naufragio. Le Parche tagliavano fili a più non posso per delle anime intrappolate a largo di alcune isole dell’Africa occidentale. Mi bastavano dodici uomini: questo il numero stabilito da Ade. Dodici, uno per ogni divinità principale. Così, mi presentai sulla zattera rimasta incagliata. I cadaveri galleggiavano come boe tutto intorno, deturpati dall’acqua. Erano rimaste sulla zattera dodici persone, di cui una prossima alla morte.
«Non sarebbe meglio porre fine alle sue sofferenze?»
Il marinaio accanto a me trasalì. Gli altri a malapena si accorsero della mia presenza, occupati com’erano a non morire.
«Guarda, praticamente è già morto. Non ce la farà mai», sospirai fingendo tristezza per la sorte dello sventurato. Poi mi voltai verso il marinaio: «Ma tu, ehi, tu hai ancora molte possibilità di sopravvivere!», una bugia pietosa dal momento che era rivolta a un uomo scheletrico con gli occhi incavati e la pelle bruciata dal sole e dalla salsedine.
«C-come?»
«È semplicissimo!» indicai il moribondo e dissi: «Una volta che lui è morto, la sua carne certo non gli servirà più, non trovi? Penso che sarebbe più felice sapendo di essere morto per garantire a qualcuno di sopravvivere piuttosto che essere morto per l’incompetenza di un superiore e basta. Non credi?»
Vidi la scintilla dell’orrore sul fondo degli occhi incavati. Dopo interi millenni, dunque, le società più vicine alla mia ancora consideravano il consumo di carne umana un abominio. Bene, questo avrebbe reso tutto più interessante.
«Mi stai dicendo di… mangiarlo? Sei un’allucinazione? Chi sei? Perché mi dici queste cose?»
Il marinaio era sull’orlo del pianto. Gli misi una mano sul braccio.
«Sono solo un amico. Ti sto suggerendo come sopravvivere. O vuoi morire in questo posto desolato e orrendo? Non c’è niente di buono una volta che sei morto. Te lo posso garantire».
L’uomo rimase in silenzio per un po’. Iniziò a fissare il moribondo e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, lo vidi salivare al pensiero della carne sotto ai denti.
«Posso insegnarti, se vuoi, a cucinarla. È come la carne di maiale. Non sentirai alcuna differenza».
«Ma come posso… con cosa?»
Fa molto comodo lavorare per il re degli Inferi quando ti servono fuoco e pentole: è ben fornito. Convinsi il marinaio disperato a uccidere il suo malridotto compagno di viaggio anzitempo e a dare l’esempio agli altri. Si riempirono la pancia bagnando i bocconi con le lacrime. Sarebbero stati dannati per sempre.

Eventi così ghiotti capitavano spesso in quegli anni. Nonostante io dovessi rendere il servizio ad Ade ogni tre anni, se mi capitava di farlo più volte lui non si lamentava. E a me non dispiaceva affatto. Feci lo stesso discorso agli uomini stremati della Essex, perduti nel Pacifico; a quelli della spedizione Franklin cui si era incagliato anche il cuore tra i ghiacci vicino all’isola di Re Guglielmo, circa venticinque anni dopo, e nello stesso anno alle famiglie della spedizione Donner. Qualche decennio dopo nella gelida Russia fu semplice convincere le persone a mangiarsi l’un l’altra. E negli occhi di chi aveva mangiato un proprio simile, quella scintilla tracotante da dominatore del mondo scomparve per non far più ritorno. Gli umani tornarono umili. Consapevoli di essere poco più che bestie e di non poter giocare a fare gli dèi. Col passare del tempo e il progredire della civiltà, era diventato un compito sempre più difficile da svolgere. Un umano lontano dalla disperazione difficilmente avrebbe mangiato un suo simile. E una volta finita l’ultima guerra mondiale, nella parte del mondo in cui dovevo operare la disperazione che spingeva a sbranarsi tra simili sembrava una condizione sempre più lontana. Ma non volevo tornare nell’Ade a mangiare cenere. Così iniziai a mescolarmi con gli uomini, a integrarmi nella società. A creare legami di amicizia, formando sempre gruppi da dodici persone. Tra i dodici ne selezionavo uno più schivo e riservato la cui scomparsa improvvisa non avrebbe creato grandi stravolgimenti: la vittima designata. Quello era il sacrificio che spettava ad Ade, che non aveva mai avuto la possibilità di dividere un pasto coi suoi fratelli da quando gli era stato affidato il regno dei morti.

«Alle cene tra amici» dissi mentre alzavo il bicchiere.
Gli altri mi fecero eco. Mi sedetti e annunciai «Buon appetito». Vederli tagliare la carne e infilzarla con la forchetta prima di portarsela alla bocca mi dava sempre un brivido, come quella volta nel mio salone. Ma gli uomini non sono dèi, e lo dimostrano sempre: quando addentano il boccone, non si rendono mai conto di cosa stanno mangiando davvero. Si limitano a fare i complimenti e a mangiare, ignari di cosa gli sia stato servito.