Ospiti

[profondità di campo]

Pubblicato il 3 Feb 2017

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Quel anno per natale eravamo andati dai nonni paterni. Era inverno. Faceva tanto freddo. È stata la notte più bella del mondo!
Grandi preparativi per andare dai nonni che non ricordo se non mi piacevano già, oppure hanno cominciato a non piacermi da quel natale in poi. Mia madre aveva fatto la permanente – con i capelli corti devo dire che non era male per niente; mio padre si era stirato tutto da solo – uno di quei giorni in cui secondo lui mia madre non lo amava a sufficienza e quindi non li stirava i vestiti con la cura che lui pretendeva. Le paturnie di mio padre erano però la salvezza di mia madre perché lei effettivamente odia stirare. Mia sorella – l’umile genio della familia – in quattro mosse strategiche da brava scacchista aveva già preparato le sue e le mie cose senza grandi difficoltà ” ebeh, che ci vuole” … il suo dinamismo, e la sua leggerezza: il mio sconforto, la mia frustrazione! Perché io le cose non le volevo fare e basta. Volevo vivere in un mondo in cui non succedeva mai niente, dove tutto era fermo e statico e dove solo io potevo decidere la direzione che dovevano prendere i pezzi sulla scacchiera. Ma la magia di quella notte ci aveva messe d’accordo per sempre.
ok, i maiali stanno gia a pezzi in salumi, sotto sale oppure appiccati in uno di quelli armadi da guardaroba, ormai arrugginiti che mio padre portava dal lavoro perché utili al orto. Ci metteva dentro truccioli e legna che bruciava poco. E invece che mettere dentro vestiti ci metteva la carne, le salsicce e tutto quello che intendeva affumicare. Alle galline e ai cani ci pensa la vicina di casa. Tutto in ordine.
Con l’anima appesantita dalle proiezioni catastrofiche che i miei genitori facevano: bibliche nevicate, eterni ritardi dei treni, vagoni senza riscaldamento, ladri che ci avrebbero lasciati pure senza mutande, zingari che avrebbero rapito mia sorella, ecc ecc. Si può proprio dire che il viaggio si era trasfigurato in un quadro che schizzava allegria da ogni pixel.
Mi sveglio col rumore del treno in movimento. Quel rumore forte, di acciaio misto ghisa e gravità. Non so se ve ne siete accorti ma a volte il tempo scorre anche nella vostra mancanza, tipo quando esci di casa e nella tasca della giacca non trovi i guanti ma un pezzo di carta sul quale è stampato il marchio di una gelateria, un tovagliolo sottile con il quale ti sei pulito la bocca di gelato, ecco quel pezzo di tempo compatto e compreso tra te che lasci i guanti nel giubbotto e te che metti le mani nella stessa tasca destra sicuro di trovare i guanti invece trovi altro, è la prova che a volte siamo invisibili, che il tempo ci cancella per un periodo. Per una stagione, per una settimana oppure per un anno. Io in effetti non so dove mi ero persa, in quale angolo di questo universo, ma di certo ho lasciato il presente al momento dei preparativi per poi svegliarmi tutta sudata in un compartimento del treno su una lunga panchina ricoperta in simil pelle color caramello. Portavo un pigiama che non ricordavo di avere. I vetri erano ricoperti di condensa e si sentiva un forte odore di rugine. Nel compartimento c’erano due lunghi divani non comodi come i divani di casa ma erano decenti e predisposti uno di fronte all’altro. Sopra la testa il numero del posto che dovevi occupare e sopra dei piccoli specchi rettangolari.”Quanto manca” chiedo a mia madre, risponde mia sorella: “siamo quasi arrivati a Botosani”. Quando arriveremo sarà ancora notte ma ci verrà a prendere nostro zio Toader, non possiamo camminare dalla stazione fino a casa dei nonni. Ha nevicato tanto.
Arriviamo alla stazione dove fuori c’è lo zio nella sua super pelliccia per la cui lavorazione hanno lasciato la pelle almeno 5 o sei pecore e con una specie di colbacco nero, alto a forma di cilindro, sempre e rigorosamente in pelle di pecora. Era arrivato con la slitta e due cavalli che erano cosi addobbati che sembravano i cavalli delle giostre. Dopo aver salutato lo zio che come al solito ci bacia in bocca – io mi pulivo sempre – che se poco poco sentivo la bocca bagnata mi veniva il vomito. Una deprecabile esperienza quella di salutare i parenti anziani. Saliamo nella slitta, ovviamente aperta e senza alcuna fonte di calore se non le pellicce di orso, pecora, le coperte e i propri corpi. Nonostante il freddo pungente e le narici che si sono subito attaccate per via del freddo la cosa mi era piaciuta subito. Avventurosa. Bilanciava il noioso viaggio in treno. Saliamo nella slitta. I miei genitori si mettono d’avanti su una tavola di legno ricoperta da una pelliccia vicino mio zio che guidava i cavalli e noi dietro, dentro la slitta nelle coperte e le pellicce. Da una parte c’era un sacco di fieno che serviva per i cavali, ne abbiamo fatto buon uso e ce lo siamo messo dietro la schiena, faceva da schienale e isolava dal gelo che c’era fuori. Ci siamo coperte fino agli occhi. Lasciata la città, arriviamo in mezzo al nulla. Una campagna ricoperta di neve e di un silenzio profondo che potevano sentire le stelle chiacchierare. Abbiamo visto il cielo più bello in assoluto. Quel freddo pungente, il buio illuminato soltanto dalla neve che brillava come diamanti e lucciole invernali ci aveva regalato la possibilità di ammirare quel cielo stupendo. Con mia sorella ci tenevamo strette strette, e guardandoci negli occhi abbiamo capito che quella notte ci ha legate in un’amicizia eterna. Eterna come la puzza impregnata nelle pelliccie dagli animali che una volta vivevano sotto quel pelo, eterna come la la puzza e l’odore della vita che facevano un tempo. L’infinito cielo che si univa alle campagne innevate e al silenzio che si sente e si stente soltanto dopo lunghi giorni di intense nevicate, univa tutto quella sera, e ci ha unite anche a noi perché complici nella notte in cui i campi innevati baciavano il cielo come per giurarsi amore eterno. Ci ha eternamente unite nel più bel ricordo che tale è rimasto a distanza di anni, figli, mariti e altre gioie.
segue …

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