Non riesce a muoversi: pare che le funi che lo stringono alla sedia lo vogliano segare ad ogni movimento del corpo.
Non riesce ad aprire gli occhi: ogni tentativo è inutile e soprattutto doloroso. Tutto quello che ha davanti è una sottile striscia sfocata e in penombra, che non gli permette di veder arrivare un altro deprecabile colpo, duro, veloce, preciso, come tutti gli altri finora.
La testa gli esplode in chiazze di luce e di dolore.
Passano alcuni secondi – forse – che vengono dilatati dal tormento. Secondi stirati, secondi allungati e ampliati, secondi in cui l’unica cosa che il cervello comanda al corpo è di provare ancora e ancora dolore. Poi, di nuovo buio, se non fosse per quella sottile fessura tra le palpebre. Si concede solo ora qualche momento per immaginarsi il proprio volto trasfigurato e per cercare di ricordare l’ultima volta che si è guardato allo specchio.
La sua faccia nello specchio. Non è questa l’ultima cosa che ha visto prima che iniziasse tutto? Due facce: la sua e… Un flash, un lampo e poi l’immagine sparisce. Non riesce a ricordare.
*
Okay. Bottigliette d’acqua, mappa, binocolo, macchina fotografica e voglia di camminare. Considerato Nick che gli guarderà le spalle, ha tutto e questo è una cosa rara nelle terre dove si trova, fatte di polvere, edifici crollati, polvere, tensione, polvere, armi e altra polvere sui corpi nelle strade.
«Sei sicuro di voler andar in quel quartiere?» La voce di Nick appare grossa e calma, ma Bill sa che è preoccupato.
«Senti, lo so che ci hanno detto di starci alla larga.» ribadisce Bill di nuovo. «Ma so anche quello che faccio, okay? Ho una fonte certa per quel posto. Troveremo quello che cercheremo.» Ovviamente c’è il rischio che sia una balla, ma Nick non deve per forza saperlo. «Hanno chiesto foto di violenza e noi manderemo loro la violenza.» Bill abbozza un sorriso, sperando che questo possa bastare per rassicurare. Di cosa ha paura poi, Nick, lui che è armato e addestrato a combattere?
*
«Dov…» Sputa il sangue dalla bocca, sospira. Il diaframma gli fa male quando si gonfia: si sente una bilancia tra la necessità di respirare e il dolore che questo gli provoca. Bill sospira di nuovo, in maniera più equilibrata, e poi ci riprova: «Dov’è Nick?»
Una risata davanti a lui. Riesce a vedere un busto sfocato che si sposta avanti e indietro. «Ti stai preoccupando per Nick?» La voce ha l’accento locale e Bill non la conosce, ma sentendola, non riesce a non pensare ai video che ha visto online o nei telegiornali, filmati dove gente con lo stesso accento uccide i propri ostaggi per mancato riscatto. Se la sua situazione è analoga, l’unica sua salvezza è il giornale per cui lavora e questo non è molto consolante. Chi altro potrebbe pagare per la sua vita? Lo stato? Il suo stato? Se la gravità della cosa non fosse reale, si metterebbe a ridere. No, il giornale forse sborserebbe i soldi, se non per lui, per il materiale che ha ottenuto. Le foto. Già, le foto…
*
Una madre in ginocchio. Le sue urla sono silenziose, urla fatte di volto rigato e bocca spalancata, urla fatte di occhi semichiusi e di braccia che scuotono quel povero corpo nel suo grembo. Intorno a loro, soldati che girano, corrono o camminano semplicemente, senza sparare e senza degnare di una sguardo la madre con il bimbo.
Bill non se l’aspettava quella scena. È vero, ha detto a Nick che ci sarebbe stata della violenza tra le forze armate, ma lì non ci doveva essere la violenza. In realtà, non ha mai saputo cosa avrebbe trovato: la sua fonte ha solo riassunto il tutto con un “Fatti un giro in quel quartiere, se vuoi delle foto”.
Bill non se l’aspettava, ma non si è fatto cogliere impreparato. Ora sta sdraiato sulla pancia, con Nick alle sue spalle che usa il binocolo. La macchina fotografica è puntata sulla madre. Scatta, scatta e scatta. Riesce a vederle gli occhi nonostante la distanza. Ora la madre li sta chiudendo del tutto e abbassa la testa sopra il corpo del bambino. Bill scatta. Lei lo scuote, ancora e ancora, mentre le mani del figlio reagiscono al movimento come marionette, svolazzando lungo il busto e disegnando nella polvere. Mani fredde, sicuramente, mani piccole e inerti, mani morte.
Bill si prende un momento per rendere quella foto perfetta, se la perfezione può significare una scena simile. Non vuole perdersi nei sentimenti della madre, non vuole salire sulla sua giostra di sofferenza, non ora. Ora vuole solo una foto perfetta, da prima pagina. Poi ci sarà tempo per piangere.
Con l’indice e il pollice gira una delle rotelle esterne sul riflettore. Un gesto quasi impercettibile per i più, ma che la macchina fotografica capisce benissimo, allargando la profondità di campo. Due dita ruotate e ora Bill riesce a vedere in maniera più nitida anche lo sfondo dietro, fatto di macchine marroni senza finestrini e di gazebo dove gente in uniforme si da la mano e sorride. Pochi metri più verso Bill, la madre è ancora china sul bambino, l’orecchio sul petto della povera creatura. La luce è giusta, il soggetto è nitido. Bill scatta e scatta ancora, aggiustando qualche volta il riflettore, per avere più dettagli della stessa scena.
Non ha ancora finito di scattare, quando Nick, da dietro il binocolo, gli parla: «Siamo stati scoperti. Andiamo!» Lo dice con la solita apparente calma.
Bill si concede qualche altra foto poi si alza, la tracolla della macchina fotografica in spalla, e segue Nick. «E dove?» chiede, allargando le mani.
«Conosco un posto qui vicino.»
«Tu conosci un posto in questo quartiere? Ma è pieno di soldati. Se ci vedono, siamo fritti.»
Nick non si volta, ma continua a camminare mentre risponde: «Tranquillo. Seguimi.»
*
«Cosa sai di questo quartiere?» chiede ancora la voce di prima.
Bill ha il tempo solo di alzare lo sguardo sulla testa dell’ombra davanti a sé e di balbettare: «Non…»
Un altro pugno gli fa torcere la testa verso destra. Il dolore ormai è famigliare e non lo spaventa più.
La voce ora inizia a strillare. «Non dire cazzate, straniero!» Forse gli punta un dito contro, Bill non riesce a vederlo bene. «Perché sei venuto qui? Perché hai scattato quelle foto?»
Bill annuncia la spiegazione con un breve lamento. «Ho solo…» Si raddrizza la testa. «Ho solo aggiustato…» Sputa di nuovo il sangue in bocca. «… la profondità di campo.»
Una nuova voce ride. Non è dello stesso uomo che lo sta torturando. Questa è più lontana e proviene leggermente da sinistra.
«Che diavolo è la profondità di campo?» chiede l’uomo davanti a Bill. E la seconda voce ride di nuovo.
*
Il posto che Nick conosce è un bar o è quello che vuole sembrare. Buio, con soli due tavoli e un bancone rovinato. Nick fa un cenno con la testa al barista, si siede al tavolo più vicino e invita il suo protetto a imitarlo.
«Vado solo un secondo al bagno.» dice Bill.
Nick lo squadra per qualche secondo. «E ti porti la macchinetta dietro?»
Bill abbozza un sorriso. «Potrò vedere i miei capolavori mentre espello, no?» Si volta e si dirige verso l’unica altra porta nel locale. Entra nel bagno e poi in uno degli scompartimenti. Si chiude dentro, abbassa i pantaloni e prende la macchina fotografica sulle mani. Sul piccolo schermo c’è un’anteprima del materiale che ha ottenuto. Bill scorre le foto, una per una, finché non arriva a quelle con la profondità di campo più estesa.
Osserva bene la madre e il figlio. Lei china, le mani di lui nella polvere. E ora che lo sfondo è più nitido si possono anche vedere delle persone sotto ai gazebo. Tutte con la stessa uniforme, tutte facce straniere per Bill, tutte tranne una. Bill la osserva. La figura non è nitida come la madre e il bambino, ma non c’è dubbio.
Si pulisce, esce dallo scompartimento e si ferma al lavandino sulla destra dell’entrata, la macchina fotografica ancora appesa alla spalla. Si sciacqua le mani, si sciacqua il viso.
Cosa diavolo ci fa il generale delle truppe qui? E soprattutto perché indossa l’uniforme dei soldati appartenenti a queste terre? Si ritrova a sussurrare: “Il nostro generale nelle vesti del nemico.” Sarebbe un titolo da paura.
Si risciacqua il viso e poi lo alza per vedersi allo specchio. Non ha il tempo di capire se è preoccupato o felice per l’informazione appena appresa dalle foto. Accanto al suo viso sullo specchio ne appare un altro. Bill si spegne subito dopo.
*
Ora sì che gli viene da ridere. Avrebbe dovuto capirlo sin dall’inizio. Si è svegliato legato e bendato. Qualcuno è entrato, dal rumore dei passi almeno tre persone. E prima di interrogarlo, gli hanno tolto la benda a forza di pugni. Ma prima di questo c’era Nick, Nick nello specchio vicino a lui, Nick che non si è fatto sentire mentre entrava nel bagno, Nick che lo ha steso.
«Ehi, Nick!» cerca di esclamare. Ora ride veramente. Non riesce a vedere molto, ma è sicuro che Nick sia presente. «Nick, dove sei, collega? Sei qui, vero? Questi sono tuoi amici.» E ride. Ride perché sa che quella sarà l’ultima cosa che farà. Ride perché la macchina fotografica ce l’aveva addosso nel bagno e ora non ce l’ha più. Ride perché, ora che i suoi sequestratori hanno visto le foto, sa che non lo lasceranno andare. Non può raccontare a nessuno quello che ha visto, nemmeno se non lo può provare. «Nick!» chiama di nuovo, ridendo. «Nick, lo hai visto anche tu col binocolo, non è vero?» Bill non riesce a smettere di ridere. È la fine eppure… Come fa a non essere buffa una fine del genere? Tutto per colpa della profondità di campo allargata.
La voce di Nick si sente finalmente. «Sì, Bill. L’avevo visto.»
Bill non è sorpreso di sentire la sua voce. «E mi hai portato nel bar per non fare altre foto.» Scoppia di nuovo a ridere. «Il giornale non ha mai detto di stare lontano dal quartiere, vero? Sei tu che non volevi che ci andassimo.»
C’è una pausa di silenzio. Bill non ricorda più il dolore di poco prima, il tormento, le esplosioni di luce nella testa. Non ha senso ricordare, perché è finita. Finita per lui, come per il bimbo in braccio alla madre. Ma nessuno scuoterà lui, nessuno gli farà disegnare con le mani inerte nella polvere, nessuno urlerà per lui in silenzio.
«Mi dispiace, Bill.»
Bill scoppia di nuovo a ridere. «Dai, allora!» Urla tra una risata e l’altra. «Facciamola fini…»
Una fitta alla testa. Riesce a sentire la pressione di qualcosa di super appuntito e tagliente che perfora velocemente la sua tempia. È solo una frazione di secondo, ma Bill sente tutto questo benissimo. Di colpo smette di parlare, smette di ridere. L’ultima cosa a cui riesce a pensare sono le braccia inerte del bambino. Subito dopo, si spegne del tutto.