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Non ho mai creduto di avere dei poteri e non ho mai pensato di essere speciale. Neanche per i miei genitori. Mi sono sempre considerato un bambino come gli altri, ma non un figlio. Sicuramente mia madre qualcosa ha fatto per mantenermi vivo fino a quest’età, tra un sorso di whiskey e l’altro. Mio padre anche, quando non era troppo impegnato per fare a lotta con mamma. Ho sempre cercato di non chiedere mai nulla a loro, perché sono un bambino e non un figlio. E un bambino ha sempre paura della gente che strilla e che scatta per un “ciao mamma” detto a denti stretti.
Non ho mai creduto di avere i poteri e non ho mai pensato di essere speciale, nemmeno quando sono riuscito a guadagnarmi la mia prima pianola, facendo i compiti a qualche mio compagno di scuola e qualche lavoretto nei giardini dei vicini. Quella volta i miei non lottavano più tra loro, ma contro di me. Mi ricordo solo “Hai visto che è finito l’whiskey e tu ti sei comprato quella spaccatimpani. Cosa credi, che i soldi crescono sugli alberi?” e poi “Spegni quella merda di musica, beethoven del cazzo, e vai a comprare da bere”.
Non ho mai creduto di avere i poteri nemmeno quando ho scoperto che potevo suonare indossando le cuffie, senza dare fastidio a nessuno. Una bella svolta per me. I miei non sapevano nemmeno dove mi trovavo. Chiuso in camera mia, a provare e provare. Non importava se era Fra Martino o La marcia turca. Non importava se era musica classica o moderna, un arrangiamento semplice o complesso. Quei momenti con le ditta sopra la tastiera e le cuffie nelle orecchie erano gli unici momenti in cui potevo sorridere dentro casa. Casa intesa come struttura, non come… casa. Forse la mia vera casa era proprio quella camera, dove i miei non entravano e dov’era posizionata la mia pianola. Sì, la mia casa era solo una camera, anzi, una sedia rotta davanti alla tastiera.
Non ho mai creduto di avere i poteri e non ho mai pensato di essere speciale, nemmeno quando mio padre era entrato in camera mia, in casa mia, spalancando la porta con una botta assurda, tanto da coprire il suono all’interno delle mie cuffie. Per lo spavento mi ero ritirato all’indietro sulla sedia, cadendo e strappando il filo con cui era collegato alla pianola. Non ricordo molto di quella sera, solo poche cose essenziali. Mio padre che strillava: “Ti avevo detto di comprare da bere. Dov’è la mia bottiglia?” Io che rispondevo che ci sarei andato non appena finito di suonare quella nuova canzone e lui che urlava ancora. “Hai sentito donna? Questa spaccatimpani va prima dei suoi genitori.” E poi è successo quello che non doveva succedere: mio padre che strappava la pianola dalla sua postazione, la alzava sopra la testa e poi la sbatteva contro il pavimento una volta, due volte, tre volte, quattro volte… otto volte in tutto. E a ogni volta saltava qualche tasto o qualche pulsante. L’unico ricordo nitido è un Do diesis che mi finisce in faccia. Altri tasti erano sparsi per il pavimento. E mia madre che, dopo essere arrivata anche lei sul posto, dice: “E ora voglio vedere che scusa hai per disobbedire ai tuoi genitori.”
Non ho mai creduto di avere i poteri e non ho mai pensato di essere speciale, se non una volta, mentre tornavo con la spesa dei miei a casa. Nella busta c’erano solo bottiglie, tutte piene di whiskey. Ricordo mio padre che dice: “Ah, finalmente!” e che poi cambiò espressione quando presi una bottiglia e la spaccai contro il tavolo. L’alcool imbrattava il pavimento. “Cosa cazzo fai, moccioso?” strillava. E poi il sangue, sangue che si mischiava all’whiskey. Prima dalla gola di mio padre, che aveva ancora la faccia incredula per quello che aveva fatto il suo moccioso. E poi il sangue dal viso di mia madre. E poi dal petto di tutti e due e poi… sangue e whiskey dappertutto.
Non credo di avere i poteri e non credo di essere speciale nemmeno adesso, mentre sto in questa piccola struttura dove da giorni mi hanno portato. Ci sono altri bambini qui, per la maggior parte con carattere irascibile, ma nessuno per ora ha toccato la mia nuova pianola. Lo chiamano carcere minorile, ma io non so bene nemmeno cosa significhi. Qui posso suonare senza andare a comprare da bere a nessuno e senza dover indossare le cuffie. Qui posso far sentire la mia spaccatimpani. Qui sono gli altri che pensano che io sia speciale e anche se lo chiamano carcere, io la chiamo casa.