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Aspettando la fine del mondo – Il paradosso dello zucchero e dell’informazione.

Pubblicato il 27 Mar 2021

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Ciò che siamo abituati a chiamare commercialmente “zucchero” è in realtà il saccarosio, uno dei tanti “zuccheri” esistenti e indicati in chimica organica come carboidrati. Questi possono essere formati da una molecola di un qualunque zucchero (monosaccaridi) o da più molecole di questi (polisaccaridi).
Il saccarosio è un disaccaride formato dall’unione dei due monosaccaridi  glucosio e  fruttosio.

Se pur le molecole di questi due hanno la stessa formula bruta (C6H12O6) in realtà sono molto diverse, tanto per dire il glucosio forma un anello a sei elementi mentre il fruttosio lo forma a cinque, ma soprattutto è il glucosio che è la fonte primaria di ogni richiesta di energia di ogni essere vivente.

Il suo ruolo nei vari cicli aerobiotici o anaerobiotici è fondamentale per la produzione di ATP e quindi per il funzionamento di ogni motore cellulare che richiede energia.

Tutti nutrienti che assumiamo nel corso della vita sono trasformati dal corpo in glucosio o immagazzinati come precursori di questo in varie forme (ad es. glicogeno) pronte per l’uso.

Insomma si può dire che il glucosio (e quindi suoi vari precursori  presenti in natura) è ciò che consente la “vita” così come la conosciamo, nel senso di di mobilità, spostamento, attività, sforzo fisico ed intellettuale, crescita.
Non è certo un caso che quando si vuole coltivare una coltura batterica con un apposito terreno di crescita l’apporto zuccherino deve essere sempre garantito. Anche i batteri e gli altri microrganismi crescono, e si moltiplicano, grazie al glucosio e quindi allo zucchero ovviamente.

Tuttavia, avete mai fatto caso che il saccarosio lo conserviamo per decenni a temperatura ambiente e non gli succede nulla?

Non va a male, non ci crescono le muffe e, se non ci mettono le mani i figli golosi o le formiche in campeggio, anche dopo anni lo troviamo esattamente dove l’abbiamo lasciato e possiamo consumarlo tranquillamente senza paura che ci sia cresciuto qualche batterio.

E questo, vale anche per ogni soluzione di zucchero in cui la percentuale di questo sia maggiore del 70% (ad esempio il miele).

Questo perché i microrganismi sono molto sensibili all’azione di ciò che chiamiamo pressione osmotica e per loro depositarsi su cristalli di sali (o di zuccheri) puri, o in soluzioni troppo concentrate di questi, significa morte istantanea.

La cellula del microrganismo è tenuta insieme dalla membrana cellulare che in chimica fisica è ciò che si definisce “membrana semipermeabile“, ovvero una barriera che applicata ad una fase liquida lascia passare il solvente ma non i soluti in esso disciolti. In una soluzione acquosa di cloruro di sodio (il sale da cucina)  attraverso questa membrana passerebbe l’acqua ma non il sale disciolto in essa.
Ma cosa succede quando una membrana semipermeabile separa due soluzioni a diversa concentrazione di soluto? Succede che il solvente (acqua in genere) passi attraverso di questa dalla parte più diluita alla parte più concentrata (grazie alla forza della pressione osmotica per l’appunto)  per DILUIRE la stessa fino a quando quelle due concentrazioni non saranno identiche.


Ma se stiamo parlando di un sistema chiuso come una cellula è ovvio che questa più di tanta acqua non la può contenere e finirà per esplodere o, viceversa, se ciò che è all’esterno è più concentrato di quel che è all’interno, il batterio esaurirà la sua acqua per il tentativo di diluire la concentrazione esterna.
Quindi, riassumendo il batterio se si trova a contatto con una soluzione di acqua distillata muore perché l’acqua entrerà al suo interno fino a farlo scoppiare, se si trova in presenza di soluzioni molto concentrate (o dei cristalli di sali e zuccheri puri) muore perché l’acqua che è al suo interno fuoriesce per tentare un impossibile diluizione dell’ambiente esterno.

Lo so, ho fatto una premessa lunghissima ma era necessaria per tentare l’azzardato ragionamento speculativo su quel che sta succedendo nella nostra società sulla possibilità di accesso alle informazioni.

Più passa il tempo e più mi sembra evidente che l’enorme mole di sapere che abbiamo a nostra disposizione o,  per meglio dire,  a cui abbiamo possibilità di accesso, non ha aumentato in nessun modo la conoscenza delle persone o la loro capacità di elaborare conclusioni. Anzi.

Al netto di fake news e di disinformazione orchestrata, tutti noi oggi abbiamo accesso a una quantità di dati e di informazioni impensabile fino a qualche decennio fa. Possiamo accedere al sito della Nasa per sapere come va lo scioglimento del permafrost in tempo reale, possiamo accedere alla John Hopkins University per sapere ogni morto e ogni contagio a causa della Covid sul pianeta terra, possiamo metter e in relazione i provvedimenti presi da ogni paese e capire chi ha indovinato o meno la gestione della pandemia, possiamo accedere ai siti di biologia evoluzionistica e conoscere l’andamento della sesta estinzione di massa.
Eppure c’è qualche meccanismo che si intoppa. L’analfabetismo funzionale è alle stelle, non sappiamo distinguere fra un sito di astronomia e uno di astrologia, di fronte a un grafico a tre variabili abbiamo lo stesso atteggiamento degli scimmioni di kubrikiana memoria di fronte al monolite nero.

Molte persone hanno sempre più difficoltà a completare la lettura di un articolo che rientra in una pagina A4 a carattere 12. (A proposito, state ancora leggendo?)

E molte di esse anche se lo leggono, poi restano convinte che l’articolo gli dia ragione anche se ci fosse l’esatto opposto di quello che loro sostengono.

Dov’è l’intoppo? Dov’è il fenomeno correlato che possa giustificare ciò?

A voler trovare una correlazione (avviso: speculazione sul ragionamento già speculativo di per se)  con il “paradosso” dello zucchero sembra che più la quantità di informazione disponibile arriva a contatto con le le nostre menti e più il buon senso holbachiano esca dalle stesse. Quel buon senso che non si apprende sui libri forse, ma che pure una volta sembrava essere sufficiente per distinguere un ciarlatano da uno scienziato.

Lo dichiariamo a scanso di equivoci: sappiamo benissimo che non c’è mai stata nessun età dell’oro e che gli approfittatori della buona fede ci sono sempre stati (lo “schema Ponzi” nasce nel 1918 mica l’altro ieri); però, forse peccavamo di ottimismo positivista e lo riconosciamo senza vergona, speravamo davvero che avendo la possibilità dell’accesso a tutte queste informazioni le persone sarebbero state se non migliori almeno più consapevoli.

E invece no, direbbe Brunori Sas.
Pazienza, sarà per la prossima specie dominante.